Storie di cinema e storie di vita sul palco del Foggia Film Festival. Lo scorso giovedì 27 novembre, il celebre regista Pupi Avati, ospite d’onore della 9^ edizione della kermesse, ha ricevuto il premio “Eccellezze alla Carriera“.
Una carriera che l’ospite ha ripercorso durante la lunga chiacchierata con il giornalista Tony Di Corcia sul palco dell’Auditorium Santa Chiara. Una serata da brivido – proprio come il suo film proiettato durante la serata, “Il Nascondiglio” – che ha lasciato la platea con il fiato sospeso.
Tanti gli aneddoti raccontati, tanti i retroscena svelati, altrettanti i ricordi condivisi con una sala gremita, avida di assorbire i dettagli che hanno lasciato trapelare la personalità del regista.
La prima? “Non amo che mi si chiami il Maestro – ha dichiarato Pupi Avati – preferisco che mi si chiami professore. E’ un modo per avverare, in un certo senso, il sogno di mia madre che voleva un figlio laureato”.
Ben lontana dai banchi di scuola la vita di Pupi Avati che, prima del cinema, coltivava un’altra passione: quella per la musica, strumento prediletto il clarinetto. Una passione che porterà sulla sua strada l’amico -nemico Lucio Dalla.
“Quante volte sono stato invidioso di Lucio – ha confessa il regista – per la sua assoluta bravura nello strumento, per le volte che mi ha eclissato. Penso però che sia stata una delle persone più straordinarie che io abbia mai conosciuto“.
A proposito di persone straordinarie, sono tanti gli attori e le attrici che devono la consacrazione del loro talento a Pupi Avati: basti pensare a Diego Abatantuono oppure a Katia Ricciarelli, presa in prestito dal mondo della lirica per recitare ne “La seconda notte di nozze”. Eppure nessuno potrebbe immaginare il retroscena di quel casting.
“Non riuscivamo a decidere chi dovesse interpretare la parte della vedova – svela il regista – ed era una serata in cui avevamo bevuto un po’ troppo. Mi andò un po’ di vino di traverso, emisi un suono gutturale che ricalcava la pronuncia di Ricciarelli. Fu scelta Katia“.
Ma l’ispirazione per i suoi film non arriva certo solo dai suoi momenti goliardici: “Mi sono ispirato spesso a scene di vita vissuta, il mio interesse per il genere horror nasce dai miei ricordi di infanzia, quando vivevo in campagna a Sasso Marcone, con mia madre e mia zia. Ci raccontavano storie spaventevoli di cimiteri e cadaveri riesumati da un vecchio parroco che si scoprì poi essere una donna.” Nacque così la pellicola “La casa delle finestre che ridono”.
Dall’infanzia alla maturità: una carriera ripercorsa di pari passo con i momenti più significativi della sua vita. Una vita che Pupi Avati paragona ad una collina: ” Nella cultura contadina, la vita è una collina da scalare convinti con sfrontatezza, in giovinezza, che una volta arrivati in cima tutto si realizzi, ma che poi nella seconda fase dell’esistenza finisce per scollinare. La vita è una collina e una ellissi, dalla salita del bambino per il quale il tempo è un infinito presente a quella dell’adulto fino alla “cerimonia degli addii” tra il proprio io e il fisico, col disapprendimento della vecchiaia e alla nostalgia del “bambino che sei stato”.
E così, la platea non ha potuto fare altro che alzarsi in piedi per suggellare con un sentito applauso una grande lezione di vita. Come un gran bel film.